Private equity ETF in portafoglio? Non per la diversificazione

In una recente intervista David Solomon, CEO di Goldman Sachs, ha suggerito di aggiungere tra gli asset in portafoglio anche il private equity ed il private debt, una mossa tesa ad aumentare la diversificazione degli investimenti. Ma è una strategia replicabile anche dal piccolo risparmiatore. In altre parole, può essere utile aggiungere un investimento in ETF indicizzati al mondo del private equity?

Ma partiamo dall’inizio. Cosa significa private equity? Potremmo definirlo come una sorta di talent scouting finanziario. In pratica un soggetto dotato di capitali individua una società non quotata che presenta delle buone probabilità di crescita nel medio termine e ne acquista una partecipazione. Se e quando il “talento” sarà emerso, il soggetto investitore venderà la sua partecipazione, lucrando sul maggior valore creato e mettendosi a caccia di una nuova società da valorizzare.

La prima conclusione che si può trarre da questa sintetica e volutamente semplificata definizione è che il rendimento di una operazione di private equity non è in nessun modo stimabile ex-ante, e che il rischio collegato a queste attività è elevatissimo. Motivi per i quali l’investimento in private equity è da sempre considerato territorio esclusivo degli istituzionali e spesso, come ricorda sempre Solomon, si è rivelato una sorta di black box nella quale rientrano operazioni molto eterogenee tra loro, tutte accomunate dalla volontà di diversificare gli impieghi cercando asset non correlati con gli altri detenuti in portafoglio.

Sul mercato esistono comunque dei prodotti finanziari focalizzati sul mondo del private equity, tra questi anche alcuni ETF. Viene quindi da chiedersi se per un piccolo risparmiatore aggiungere tali strumenti in portafoglio possa essere una buona mossa diversificativa, così come lo è per gli istituzionali.

Mettendo a confronto uno dei principali ETF quotato in Europa (l’Xtrackers LPX Private Equity Swap UCITS ETF, presente anche a Milano), ed un ETF che replica l’indice Russell 3000 (con un’ampia platea di società USA quotate, di tutte le dimensioni) si nota come la correlazione tra i due sia positiva e molto vicina all’unità. Gli ETF, del resto, replicano un indice di società che si occupano di private equity e che sono quotate. Il loro valore, quindi, dipende non solo dal core business ma anche dall’andamento dei mercati finanziari. In altre parole l’investitore beneficia solo indirettamente dell’attività di private equity che le società mettono in atto. Non solo, la stessa valutazione delle società oggetto del private equity viene in ogni caso influenzata dai prezzi presenti sui mercati regolamentari. Molti studi hanno calcolato che la correlazione media tra private e public equity sia attorno al 70%-80%, non poco. In aggiunta, al netto dell’ultimo anno, sempre osservando il grafico, non si evidenzia nemmeno una elevata differenza di rendimento tra i due indici.

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C’è anche da ricordare che tali strumenti presentano profili commissionali piuttosto elevati, un elemento ulteriore che ci spinge ad accantonare l’idea che un ETF di private equity possa aumentare la diversificazione del nostro portafoglio.